TESTO E FOTO DI

Carlo Maria Milazzo

Gli dei bambini di Katmandu



“La solitudine è per gli dèi o per le bestie feroci”, scrive Henry Miller, scopiazzando peraltro un pensiero di Aristotele. Un luogo dove verificare l'aforisma è senz'altro il Nepal, piccola repubblica di 147000 Km quadrati che incappuccia l'India. Gli animali feroci si sparpagliano a sud, nella pianura tropicale del Terai, sul confine indiano. Li si può scovare a dorso di elefante o con un trekking incosciente.

Arrivo al Chitwan National Park del Terai nel mese di Magh 2076, secondo il calendario lunare nepalese, il Vikram Samvat (calendario del Coraggio). Il mio cellulare segna 9 febbraio 2020. 25 gradi Celsius, con sole dolce come fornello che debba cuocere una marmellata. Deepak, la guida locale, è di etnia Pharu (una delle 125 etnie del Nepal). Ha pelle color pollo al curry, occhi neri e intelligenti, capelli a spazzola, baffetti ad accentare la bocca serissima. Deepak istruisce che, in caso di avvistamento di una tigre, ci si deve paralizzare nell'assenza completa di movimenti. Meglio non agitarsi anche incontrando un rinoceronte, mentre, se ci si imbatte in un orso labiato, occorre spaventarlo con urla e battimani. Il leopardo non si fa vedere ma, se si annusa un forte odore di urina (che non proviene da vostra incontinenza da panico), il felino è appollaiato su un ramo vicino. È indispensabile vestirsi di colori scuri.

La Lonely Planet segnala che nel parco si contano molti casi di turisti sbranati da tigri o calpestati a morte da rinoceronti. Ciononostante opto, insieme a tre compagne d'avventura, per l'escursione su elefante. Deepak è anche mahout di Shakina, un'elefantessa dagli occhi arancioni e saggi. Dondoliamo sulla cassetta in groppa a Shakina su un sentiero che costeggia una foresta di sal, latifoglie dal legno ottimo per mobili e barche. Qualche tronco è avviluppato dal fico strangolatore. Di tanto in tanto esplode la macchia scarlatta dei fiori del kusum.

Shakina si ferma su un tratto sabbioso. Deepak indica col suo bastone uncinato impronte fresche di tigre. Le orme hanno forme di joistick sormontati da quattro fiammelle. Tozzi macachi si palesano con improvvisi schiamazzi e tre cervi pomellati escono dalla boscaglia lanciando possenti bramiti. La tigre è di sicuro acquattata tra il verde e io sento, ma potrebbe essere un effetto dell'ipossia da respiro bloccato, un sordo e vibrato ruggito.

Shakina s'incammina lentamente, come chi voglia svignarsela alla chetichella. Finiti gli alberi, ha inizio una savana color polvere, composta da un'erba che può raggiungere gli 8 metri e di cui gli elefanti vanno ghiotti. Deepak sposta il nostro pachiderma a destra e a manca e, aprendo varchi nell'erbaggio, snuda rinoceronti ben camuffati. Il rinoceronte indiano è grigio metallico/alto un metro e 80/lungo 3 metri e mezzo. Ha un solo corno cheratinoso incurvato all'indietro. Non indietreggia davanti all'elefantessa, ma non va nemmeno alla carica di una mole troppo grande.

Shakina spaventa cervi sambar con palchi enormi di corna, cervi porcini dalle zampe corte, cervi abbaiatori che latrano e hanno canini simili a zanne. Tra gli alberi che preludono al fiume Rapti volano pavoni dalle code ingombranti, trottano cinghiali sparsi, fanno acrobazie scimmie biancastre.

Il Rapti fa tanta strada, dall'Himalaya fino al sacro Gange. Scendiamo dall'elefantesssa con l'aiuto di un'alta piattaforma dotata di scala. Deepak ci consegna a un barcaiolo avvolto in un panno verde, tetragono, con rughe in fronte da poterci fare un cruciverba: pare un eremita part time. Prima di battersela col suo pachiderma, Deepak ci invita a non temere gli eventuali coccodrilli, i quali attaccano solo se ci si avvicina troppo. Saliamo su una canoa a baccello, con le sponde lambite da acqua bassa e cristallina. Il barcaiolo sta in piedi a poppa, come un gondoliere: non ha remo, ma una canna sottile che pianta nel fondale.

È giusto dire che il fiume è infestato di coccodrilli, che se ne stanno sulle rive a scaldarsi al sole, distanziati l'uno dall'altro di 3 metri, quasi temano un contagio. Sono di due tipi: l'innocuo gaviale col muso lungo, stretto, rigonfio in punta e il coccodrillo classico, dal muso corto, con le fauci appena spalancate da acquolina in bocca, con gli occhi crudeli infossati tra le squame. Un coccodrillo classico si tuffa e si dirige verso la barca. Le narici spuntano dall'acqua come mini periscopi. Per me sarebbe bene non sapere che il coccodrillo ha il morso più potente in natura, 8 volte più forte di quello dello squalo bianco, che i denti cadono e ricrescono in modo da essere sempre taglienti, che la rapidità del morso è di 16 centesimi di secondo, che la velocità della nuotata è di 25 Km/h. Sudo e la mia camicia azzurrina diventa blu. Il coccodrillo passa davanti alla prua e si fa i fatti suoi.

La gita in barca manderebbe in visibilio un ornitologo che potrebbe estasiarsi tra martin pescatori dalle livree turchesi, cicogne nere con due metri di apertura alare, garzette candide, parrocchetti chiacchieroni, galli grigi della giungla, tortore smeraldine, nettarine guancerosse, coppie di anatre siberiane e buceri (ricordate Zazu del Re Leone?).

Dopo l'approdo in un'insenatura, il barcaiolo ci accompagna per un breve sentiero al Lodge. Evaporato il sudore, io constato che il mio karma non è evidentemente in scadenza. E penso che, se qualcuno mi chiedesse canticchiando “Il coccodrillo come fa?”, gli risponderei che non sono stato cosi imbecille da appropinquarmi al rettile. Poi, visto che a pericolo scampato posso riprendere a fare il saccente, gli direi che il coccodrillo trimbula, cioè emette un suono grave e tremulo.

 

Nagarkot è 32 Km a nord di Kathmandu. Piccolo e brutto paese a 2000 metri, costituito da alberghetti fatiscenti e case stinte incastrate come i mattoni a Tetris. Qui le aquile planano solenni mostrando gole arancioni. I campi fioriti della senape sono tappeti gialli. Il villaggetto può essere raggiunto noleggiando un pulmino Tata con autista, salendo per tornanti esposti su precipizi e affondando in buche che a teatro ospiterebbero il suggeritore. Nagarkot è però il punto migliore per godersi la vista dell'Himalaya. Il su e giù delle montagne traccia l'elettrocardiogramma di un dio domiciliato tra le rocce. Il cielo blu è allagato dal sangue venoso di un altro dio. La neve brilla come punteggiata di diamanti.

Il panorama parte ad ovest dalla lontana Annapurna, screziata di rosa (8091 metri). Continua con il Manaslu (Montagna dello Spirito, 8163 m) e con lo Shisha Pangma (la Cresta al di là dei Pascoli, 8013 m). Poi l'occhio transita sul Cho Oyu (la Dea Turchese, 8201 m). E dopo si incanta sul Lhotse (il Monte a sud, 8516 m), quindi sul Makalu (il Grande Nero, 8463 m) e sul Kanchenjunga (i 5 Tesori della Grande Neve, 8585 m). Poi, ad est, lo sguardo cala su 7 picchi da 7000 metri. L'Everest (8848 m) spunta con cima piramidale dietro i monti più “bassi”, come il compagno più alto nell'ultima fila della foto di classe.

Ogni anno migliaia di alpinisti, scortati da portatori Sherpa (altra etnia), salgono verso le vette. Moltissimi ci lasciano le penne. Gli dèi si fanno vedere, se vogliono, solo da chi crede in loro. È facile che uno scalatore di fede pallida venga giustiziato. Un picco sicuramente inviolato è il Machapuchare (la Coda di Pesce, 6997 m), un gemello del Cervino. Niente meno che Shiva, il distruttore della triade venerata dagli hindù, abita le pendici del monte. Chi si avventura, anche con meteo favorevole, viene presto braccato da file di nuvole nere come limousine a un funerale della mala. Il vento soffia la neve dandole forma di levrieri bianchi in folle corsa. La montagna applaude i fulmini con scariche di lastroni di ghiaccio. I crepacci ridono, aprendo gole profondissime. Nessuno fa ritorno dal Machapuchare.

 

Bodnath è il più grande stupa del Nepal, nella zona nord-est di Kathmandu. Si giunge al suo cospetto deviando appena da una strada polverosa gremita di motociclette starnazzanti, mucche a zonzo, camion ipercolorati, piccoli taxi bianchi, scalpellini, muratori, venditrici di fragoloni, venditori di carote così grosse che con un paio un coniglio ci fa il pranzo di nozze. Bisogna dribblare grosse spaghettate di fili elettrici poste ad altezza del mio naso.

Lo stupa è situato sull'antica via carovaniera Lhasa-Kathmandu, in un punto dove per secoli i mercanti tibetani sostano con gli yak carichi di sale, spezie, gioielli, tessuti. Con la diaspora dal Tibet, in seguito alla fallita rivolta contro l'invasione cinese nel 1959, molti profughi si sono stabiliti intorno a Bodnath, fondando anche 30 monasteri (gompa) del buddhismo tibetano. Lo stupa è una costruzione circolare di 100 metri di diametro, sormontata da un cupolone ritinteggiato ogni anno di bianco e decorato da tratti curvilinei gialli, simboleggianti i fiori di loto. Sulla sovrastante torre rettangolare campeggiano sui quattro lati gli occhi blu del Buddha e il suo naso (in realtà l'ek, il numero 1). Sopra la torre s'innalza una piramide di 13 gradini e la sommità è un ombrello d'oro che fa da confine tra lo spazio e il vuoto. Altezza totale: 36 metri.

Alla base dello stupa, lungo la circonferenza, si drizzano 108 statuette del Buddha Amithaba (Signore del Loto Rosso) e si incavano 147 nicchie in cui sono inseriti i cilindri della preghiera. Nella circum-ambulazione in senso orario intorno alla stupa (la kora), i pellegrini fanno ruotare i cilindri e i mantra incisi sul metallo decollano per forza centrifuga. Alle preghiere cooperano anche le bandierine gialle/verdi/rosse/bianche/blu appese a fili tirati dallo stupa fino alle case circostanti. Le invocazioni scritte sulle bandiere vengono lette dal vento che le porta in alto (ecco, io stringerei la mano al vento che sa leggere le parole delle preghiere).

 

Mi siedo a un tavolino dell'Himalayan Cafè insieme a Binita, la mia gentilissima guida di Kathmandu. Binita, etnia Newari, ha 40 anni, un figlio di 20 e, come il 90% delle nepalesi, si è sposata con nozze combinate (lei dice che il suo è un matrimonio felice). Ha i capelli nerissimi, divisi da riga centrale, lunghi fino a metà schiena. Sorride sempre, mostrando una piccola fessura tra gli incisivi superiori. Ordiniamo momo di pollo e, per me, un'ottima birra Gorkha. Guardo donne tibetane con lunghe gonne verde scuro, pashmine marroni, collane di giada. Le donne induiste (Buddha è visto come avatar di Vishnu, secondo componente della triade hindù) vestono sari chiassosi, gialli luminosi, aragosta, magenta. Alcuni uomini portano come copricapo una bustina rosa (topi). I monaci buddhisti sono giovani, coi crani rasati, molti occhialuti: è un dettaglio trascurabile che le felpe bordeaux abbiano uno sbuffo che non rimanda al loto ma allo slash della Nike. Santoni con barba bianca e tunica arancione sgranano rosari di 108 grani. Cani biondi, ben nutriti, sniffano i più svariati polpacci. Ragazzi/e delle scuole portano divise impeccabili: camicie candide/pantaloni o gonne grigie/gilet azzurri/cravatte blu. Un altoparlante diffonde il mantra ipnotico Om mani padme hum (come scrive Giuseppe Tucci, sommo orientalista del secolo scorso, “il mantra è la recitazione di formule che evocano la presenza di un dio e con il di lui intervento allontanano le perniciose insidie di qualche demonio”).

 

Un ragazzetto e una ragazzina mi si avvicinano guardinghi. Devono avere 13 anni. Lui è di pelle rosa-uovo, di capelli biondi cortissimi, di occhi nocciola. Indossa una tunica rosso-granata da monaco. Mi domanda:

-Sei italiano?-

-Sì-

-Devi farmi un favore- mi chiede e precisa: -Devi fare avere questa lettera a mia zia Donatella-

Il fanciullo estrae di tasca una busta con destinatario evidente e me la dà.

Dal veloce dialogo col ragazzo, che rifiuta di sedersi, imparo che si chiama Marco ed è italiano, di Torino. Suo padre Guglielmo compie un viaggio in Nepal 30 anni fa e un Lama, un maestro della legge cosmica (dharma), gli confida che intende morire nel giorno della nascita del primo figlio di Guglielmo. Il Lama profetizza che si reincarnerà nel figlio italiano di Guglielmo. Il padre è certo che il primogenito Marco custodisca la coscienza individuale del Lama. Due anni fa, Guglielmo porta il figlio in un monastero di Kathmandu, convinto che lì possa scoprire il proprio karma e il proprio compito futuro. Marco afferma di non aver nulla a che fare col Nepal, col Buddhismo, con illuminazioni indotte. Marco è stanco di svegliarsi prima dell'alba, di meditare senza parlare, di elemosinare in giro un po' di cibo. Marco è stufo di sentire storie di capre che si reincarnano in bambini. Marco non ne può più dell'odore delle candele di burro. E i Lama che passano per illuminati gli sembrano fulminati. Marco ha nostalgia della mamma Sara, che è succube del padre ma che di sicuro lo vuole riavere con sé. Marco vuole studiare italiano, latino, matematica, coi suoi vecchi compagni di scuola. Marco vuole giocare a pallone nei prati vicini al Po. Marco rivuole mangiare le polpette cucinate dalla nonna. Marco si raccomanda di contattare la zia Donatella, l'unica che può venire a riprenderlo: nessun altro deve sapere che lui vuole tornare a casa. Se nel giro di un mese sua zia non verrà a pigliarlo, Marco assicura che andrà in qualche ambasciata e chiederà il rimpatrio. Per tutto il colloquio un lacrimone sosta sulla palpebra di Marco, come un ciccione poggiato a un davanzale.

 

La ragazza, che non vuole sedersi, parla con Binita, che mi traduce. La fanciulla è bellissima. Ovale perfetto/occhi appena affusolati/labbra carnose/due trecce nere che partono parallele dalle orecchie/magrezza da mannequin/seno acerbo a sospingere delicatamente la maglietta bianca. Il terzo occhio (tika) in mezzo alla fronte è beige, di polvere di sandalo. La ragazza si chiama Anusha. È una kumari deposta da poco. È cioè “la dea vivente del Nepal” deprivata delle sue funzioni. La kumari è la personificazione della dea Durga o Kalì o Taleju che dir si voglia e dall'età di 4 anni fino al menarca vive nell'edificio accanto al Palazzo Reale. Quando una piccola folla si riunisce sotto la sua finestra, la kumari si affaccia tra il plauso generale.

La kumari viene individuata da una commissione di 8 specialisti rituali. Tra le candidate viene scelta la bambina che esibisca 32 perfezioni del corpo tra cui spalle larghe e vita stretta, cosce di daino, braccia lunghe, collo a conchiglia, denti bianchissimi e senza spazi, ciglia di mucca, occhi e capelli neri, carnagione dorata. La bambina non deve spaventarsi nella iniziatica “notte nera”, in cui 54 teste di bufalo sanguinanti e 54 capre sgozzate vengono disposte in un cortile. La futura kumari deve camminare da sola in senso orario, tra viscere e crani di animali, alla debole luce di qualche stoppino acceso; lei deve mostrarsi imperturbabile.

La kumari viene separata dai genitori e issata su un trono dal quale comincia a ricevere ogni giorno i suoi devoti. I fedeli le portano dolci, fiori, vestiti, rupie. Alcuni malati le chiedono di intercedere per la loro guarigione. I visitatori più assidui sono gli impiegati pubblici che temono di perdere il lavoro o di essere retrocessi. Molti credono che la kumari predica il futuro e si recano da lei per sapere se le attività che stanno per intraprendere avranno successo: un'ombra sul viso della bambina è segno di fallimento.

La kumari non deve mai toccare il suolo, deve sempre vestire di rosso, deve avere le unghie laccate di carminio, non può mangiare spezie, non deve parlare ai devoti. Viene destituita quando ha una perdita di sangue, ad esempio per una ferita o, inevitabilmente, con la prima mestruazione.

L'ex-kumari ritorna nei luoghi di provenienza, in una casa ordinaria dove si fa vita ordinaria. Frequenta una scuola pubblica dove la socializzazione è difficilissima viste le differenze educative con gli altri alunni.

La nostra Anusha sostiene di non capire le parole dei suoi coetanei che, vedendola strana, la spingono, la offendono, le tirano le trecce. Anusha è passata in un amen dalla venerazione al dileggio, dall'eccezionalità allo scarto, dal contare per tutti al non contare per nessuno. Anusha dice che si sente tanto sola e che spesso pensa di impiccarsi a una trave.

 

I due ragazzi se ne vanno all'improvviso, di corsa, mano nella mano. Sto per piangere, soprattutto quando mi sovviene la canzone di un mio concittadino:

 

Anusha avrebbe voluto morire,

Marco voleva andarsene lontano.

Qualcuno li ha visti tornare,

tenendosi per mano.

 

                                                                              

 

 


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