TESTO E FOTO DI

Giuseppe Di Paolo

Frigo pieno e città vuota. Il Corona virus in cucina



Appunti di resistenza alimentare e cattivi pensieri

Il Corona virus mi ha colto con il frigo pieno. Le restrizioni sono arrivate alla vigilia di una cena con amici. Questi, correttamente, sono rimasti a casa loro, e io mi sono ritrovato con tanti tortellini, carne per il bollito, verdure, stuzzichini. Tutto questo ben di Dio mi ha provocato la pazza idea di una resistenza alimentare, almeno per quindici giorni. È un po’ il modo per fare il punto zero, per vedere se sono stato contagiato, ma anche un modo per fare riemergere dalla dispensa le scorte di una vita. I legumi la fanno da padrone: fagioli, ceci, lenticchie secche; qualche scatoletta di tonno, confetture varie e poi farina, riso, pasta, pane raffermo.

Forse è ora di fare ordine, se non nella mia vita, almeno nella mia dispensa e nel mio freezer. Decido di vivere e mangiare con quello che c’è e gestire con accortezza la dispensa, suddividendo equamente il consumo di giorno in giorno per non arrivare senza risorse alimentari alla fine del periodo. Esattamente – mi vien da pensare – quello che l’Italia non ha fatto negli ultimi cinquant’anni, passando dal boom economico degli anni Sessanta al debito pubblico di oggi, una voragine senza fondo che ci mette sotto scopa ad ogni confronto politico-finanziario con i partner europei.

Mentre il Governo aumenta sempre più i vincoli e spuntano come funghi le autorizzazioni per uscire di casa, comincio la mia resistenza alimentare partendo dai prodotti freschi. Nei primi giorni, piatti di tortellini in brodo, insalatine fresche e bollito allietano la mia tavola. Cucinare è un piacevole diversivo e mentre spentolo (voce del verbo spentolare), ascolto musica. Evidentemente a volume troppo alto perché il terzo giorno mi chiama l’amministratore del condominio: il mio vicino si è lamentato della musica: gli impedisce di concentrarsi nel suo smart working (credo sia ciò che una volta si chiamava telelavoro). Ha un’impresa familiare di pulizie, incaricata, tra l’altro, di pulire le parti comuni del nostro palazzo. Mi chiedo come si faranno le pulizie in smart working. Comunque adesso capisco perché le scale da alcuni giorni sono alquanto sporche.

Condurre una vita quasi eremitica non mi esime dal mantenermi informato. A pranzo e cena seguo i telegiornali canonici. Poi ci sono tutti i social, da WhatsApp a FaceBook, dove in tanti tranciano giudizi e lanciano insulti a destra e manca. Oltre al Governo, l’Unione Europea, la Germania e l’Olanda sono i bersagli preferiti. Non vogliono aiutare l’Italia scrivono in tanti. Atteggiamento – penso – non condivisibile, ma in parte comprensibile: i Paesi dai bilanci solidi non vogliono pagare il nostro debito pubblico che già senza Corona virus raggiunge ormai il 140 per cento. Stiamo consumando quello che produrranno i nostri figli e i nostri nipoti e altri Paesi dell’Ue non hanno intenzione di pagare per noi.

Intanto, con il bollito riscopro ricette quasi dimenticate, come la salsa verde con prezzemolo, aglio, pane raffermo imbevuto nell’aceto, alici sott’olio, tuorlo d’uovo sodo. Quando gli alimenti della cena mancata finiscono, comincio ad intaccare le riserve. Certo sarebbe facile rimpinzarsi tutti i giorni di pasta, ma non costituirebbe un’alimentazione equilibrata. Devo cercare di mangiare con attenzione evitando che, complice anche l’inattività, alla fine non riesca più a rientrare nei vestiti. Non so perché, ma l’idea di mangiare tutto sbilanciato mi fa pensare all’Italia che ha concentrato le sue attività produttive in pochi settori, delocalizzando in altri Paesi produzioni anche strategiche. Così oggi ci troviamo senza prodotti e protezioni sanitarie (a partire dalle mascherine) e senza i principi attivi di base per fare le medicine ormai prodotte quasi tutte in India o giù di là.

Il mezzo cavolo cappuccio rimasto in frigo mi riporta alla mente la ricetta di una mia zia: affettava tutto molto sottilmente e poi lo faceva bollire con vino e aceto. Da bambino non lo sapevo, ma oggi riconosco che è, con poche varianti, la ricetta dei crauti. La zia, infatti, era stata in Germania, dove viveva con il marito in una stanzetta ricavata in un fienile, sopra una stalla. Vi si accedeva – raccontava – da una scala di legno esterna. Per poco più di un bugigattolo pagavano tanti Deutsche Mark. “I crucchi non ci amano – diceva – e neanche a noi ispirano molta simpatia. Ma il lavoro si trova solo là”.

Anche oggi Merkel e compagni non sono molto amati. Non solo per i ripetuti “nein” alle proposte italiane per salvare l’economia, ma anche per le mire che avrebbero per il dopo Corona virus. La Germania e l’Olanda – paventa qualcuno – vogliono indebolire l’Italia per comprarsi poi le nostre fabbriche a basso prezzo. Come se la Fiat (o Fca, come si chiama adesso) non avesse già spostato la sua sede fiscale in Olanda e come se la Germania non avesse già fatto abbastanza spesa da noi anche senza pandemia, visto che solo attorno a Bologna si è già presa gioielli come la Ducati e la Lamborghini senza colpo ferire. L’inverso non è quasi mai avvenuto. Ricordo che all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, Renato Picco, presidente di Eridania, allora uno dei più grandi zuccherifici europei, aveva provato ad acquistare uno zuccherificio tedesco in difficoltà. Non ci era riuscito, duramente respinto dalle barricate congiunte di Governo, imprenditori e sindacati tedeschi “con manovre e sgambetti al cui confronto – disse allora Picco – l’attività mafiosa è roba da ridere”

Comunque i simil-crauti mangiati con il cotechino (che non avevo cotto a Natale) mi sono piaciuti. Con l’ultimo pezzo di guanciale stagionato della mia dispensa mi concedo un inno al colesterolo con pasta di volta in volta alla Gricia, all’Amatriciana e alla Carbonara. Poi è la volta di pasta corta combinata a turno con fagioli o ceci. Sto arrivando al termine dei quindici giorni da eremita. La cucina è stata la cosa più varia di queste due settimane. Le tante raccomandazioni a lavarsi di frequente cominciano a farmi guardare con sospetto le mie stesse mani (potenziali veicolo di contagio si legge e ascolta dappertutto), mentre altre (tante) raccomandazioni si inseguono e ripetono piuttosto noiosamente lasciandosi dietro una scia di pensieri pesanti che non aiutano la digestione.

Sul fronte dell’informazione un commento degno di nota è forse quello che ha scritto sul Corriere della Sera del 27 marzo Mario Monti, che qualcuno definì proconsole di Bruxelles e Berlino quando nel 2011 assunse la Presidenza italiana del Consiglio dei Ministri. Monti scrive che le divergenze con la Germania sono superabili, anche se adombra il dubbio che la Merkel voglia che solo il suo “Bund”, il suo titolo di Stato, “sia il dominus incontrastato del mercato e che solo il suo Paese possa finanziarsi a tasso zero”.

Se proprio lui (che di Unione Europea e di politiche comunitarie ne sa) ritiene che la Germania abbia interesse che alla fine rimangano forti e solidi solo i “Bund”, forse qualche verità c’è, con tanti saluti alla solidarietà tra le nazioni e i popoli. Certo la Merkel non dimostra la statura di suoi predecessori come Kohl o Adenauer, anche se dimostra di avere buone doti di ragioniera.

Pure io me la sono cavata abbastanza bene con i conti e la programmazione culinaria. Siamo alle battute finali del mio periodo eremitico ed è ora di mettere mano al pane raffermo. Nella mia terra natale, l’Abruzzo, il Pancotto è un piatto di una semplicità francescana. Con l’unione di pochi poveri elementi si fa un piatto corale saporito e appagante. Un tempo bastavano aglio, un po’ di lardo, acqua e pane duro. Io, sull’esempio di mia madre, sostituisco l’acqua con brodo di manzo e aggiungo pomodoro. È incredibile il sapore e il gusto che scaturisce da un alimento ricco come il brodo e uno povero come il pane duro. È un po’ quello che l’Europa oggi sembra non capire: solo dall’unione e dalla collaborazione tra Paesi deboli e Paesi solidi può nascere un’Europa forte e prosperosa, riferimento per i popoli.

A chiusura delle due settimane di autarchia, arrivano i Granetti, altro piatto povero della mia infanzia. Si impastano farina e acqua (io aggiungo anche un uovo per rendere l’impasto più sodo) e, lavorando in punta di coltello , si riduce l’impasto a piccoli grani (da qui il nome) che vengono cotti in un soffritto di aglio e guanciale, con l’aggiunta di acqua e pomodoro per un risultato finale denso a mo’ di risotto.

La mia quarantena è finita, ora mi aspetta il supermercato per l’acquisto di nuove scorte. Intanto ecco la ricetta per i Granetti.

 

Ingredienti per 4 persone

  1. Farina bianca 300 gr
  2. Uovo (se gradito)
  3. Guanciale 80 gr
  4. olio evo
  5. 1 spicchio d’aglio
  6. Passata di pomodoro (se gradita) 80 cc
  7. Sale qb

 

Istruzioni

Fare una fontana di farina, aggiungere l’uovo (serve a rendere più sodo l’impasto, ma non è indispensabile) e acqua calda. Impastare lavorando con le mani per formare piccoli grumi e palline di pasta. Non devono essere più grandi di un chicco di mais. Eventualmente lavorare con il coltello per ridurli alla dimensione giusta. Eliminare con un setaccio la farina in eccesso.

In una padella a bordi alti fate soffriggere l’aglio e il guanciale (può andar bene anche la pancetta). Aggiungete la passata di pomodoro e fate insaporire per alcuni minuti. Poi aggiungete acqua (meglio essere parchi all’inizio e aggiungere un po’ d’acqua calda durante la cottura se vedete che il tutto diventa troppo asciutto), portate a bollore a aggiungete i Granetti. È fondamentale calibrare bene l’acqua: i granetti cuociono in 5-6 minuti e alla fine il risultato deve essere una pasta densa come un risotto.

Buon appetito.

 

 

 


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