TESTO DI

Giuseppe Perretti

I ritardi della ricerca in Italia, tra mille verifiche e pregiudizi



Il caso dei macachi: evitata un’altra fuga all’estero

Erano pronti a trasferire tutta l’attività all’estero i ricercatori dell’università di Torino e di Parma, per poter svolgere la loro sperimentazione finalizzata ad una cura per il recupero di capacità visive in soggetti ciechi a causa di problemi neurologici. Il trasferimento è stato scongiurato grazie alla sentenza del Tar del Lazio dell’1 giugno scorso che ha autorizzato la ripresa dell’attività. Si tratta di una vicenda che dovrebbe far riflettere sul sistema della ricerca e sperimentazione nel nostro Paese, soprattutto per quanto attiene l’attività con gli animali.

Il tutto ha inizio sul finire del 2018, quando un’équipe di ricercatori, guidata dal professor Marco Tamietto, ordinario di Psicobiologia e Psicologia fisiologica all’università di Torino, e dal professor Luca Bonini, neuroscienziato e docente dell’Università di Parma, dopo aver vinto un prestigioso bando del Consiglio europeo per la Ricerca (Erc) ottiene dal Ministero della Salute l’autorizzazione per svolgere attività di sperimentazione del progetto LightUp, ovvero «riaccendere la luce», che ha l’obiettivo di sperimentare una cura per il recupero della vista in persone non vedenti a causa di lesioni al cervello, un problema che in Italia riguarda 100 mila casi l’anno.

Il progetto, prevede che la cura, prima di essere applicata sull’uomo, venga sperimentata su animali, in questo caso 6 macachi mulatti, ai quali verrebbe provocata una leggera lesione ad un occhio, che, spiegano gli scienziati, in una persona non comporterebbe neanche il ritiro della patente. Da sottolineare che l’autorizzazione, sia da parte dell’Erc, sia dal ministero italiano della Salute, come prevedono la normativa europea e la ancor più stringente normativa nazionale, viene data dopo una attenta verifica della impossibilità di svolgere la ricerca senza l’utilizzo di determinati animali (in questo caso primati non umani).

La sperimentazione nell’estate 2019 viene contestato dalla Lega Anti Vivisezione (Lav) e da Oltre la Sperimentazione Animale Onlus (Osa), che ricorrono al Tar del Lazio con tanto di richiesta di sospensiva, che però non viene concessa. Dopo il successivo ricorso delle associazioni animaliste, l’attività viene fermata nel gennaio 2020 dal Consiglio di Stato, che blocca tutto in attesa del pronunciamento del Tar laziale. Nella sentenza, i giudici della terza sezione del Consiglio di Stato chiedono che il ministero della Salute debba “con massima urgenza, fornire tale prova sull’impossibilità di trovare alternativa ad una sperimentazione invasiva sugli animali", ignorando di fatto che entrambe le autorizzazioni, europea e nazionale, sono state rilasciate dopo la verifica che la ricerca su animali che non abbia alternative.

In questa situazione di stallo e di carte bollate, da un lato si scatenano gli hater, che sulla rete e sui social riempiono di insulti e minacce i ricercatori, fino al punto che il professor Tamietto viene messo sotto scorta dopo che all’università di Torino gli era stato recapitata una busta con un proiettile e, dall’altro, scendono in campo gli scienziati che sollevano tutta una serie di argomentazioni sulla ricerca in Italia e sulla famosa fuga dei cervelli che, a quanto sembra, più che per questioni economiche avviene per questioni burocratiche e per un sistema giudiziario inadeguato.

Se una sperimentazione è autorizzata, ricorda la senatrice a vita e farmacologa, docente della Statale di Milano, Elena Cattaneo, vuol dire che non vi sono alternative alla sperimentazione animale. Sulla stessa scia si collocano il farmacologo Silvio Garattini, e i neuroscienziati Giacomo Rizzolatti e Gaetano Di Chiara, che in una lettera aperta ai giudici, dopo aver ricordato che le verifiche richieste “sono state già eseguite dagli enti che hanno autorizzato la ricerca Light Up”, rincarano la dose sostenendo che “contrariamente ad altri paesi europei, in Italia ogni ricerca con animali viene presentata per l’autorizzazione non a uno, ma a ben cinque comitati di controllo di diversi enti, tra cui il Consiglio superiore di Sanità e il ministero della Salute. Tutti hanno ritenuto che la ricerca fosse necessaria e che utilizzasse la specie animale più adatta”.

I prorettori e i delegati alla ricerca di 13 università italiane si sono rivolti, invece, direttamente al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, denunciando in un appello la situazione della ricerca in Italia in particolar modo per quanto riguarda i limiti alla sperimentazione sugli animali. “Il nostro Paese” scrivono gli scienziati “si trova già a dover affrontare una procedura d’infrazione in merito alla direttiva europea 63/2010, che stabilisce le misure relative alla protezione degli animali utilizzati a scopi sperimentali, avendo recepito tale normativa aggiungendo ulteriori, quanto immotivate, restrizioni, di anno in anno sottoposte a moratoria (Decreto legislativo n. 26/2014)”.

Questa situazione, secondo i firmatari, pone la ricerca italiana “in una condizione non solo di inferiorità, ma di manifesta inaffidabilità nei confronti dei colleghi europei e, presto, precluderà l’accesso a fondi comunitari rendendo ancora più difficile la situazione della ricerca italiana e scoraggerà alcuni dal rientrare in Italia, ne spingerà altri fuori dal nostro Paese e la nostra ricerca biomedica ripiomberà nella preistoria”.

Grazie alla documentazione che il ministero della Salute ha fornito al Tribunale amministrativo e alla documentazione dei Nas, che attestava il buono stato di salute e il trattamento appropriato dei macachi, e alla relativamente tempestiva decisione dello stesso Tar del Lazio, lo stop alla sperimentazione della ricerca Lightup è stato di “soli” quattro mesi ed è stata scongiurata che una ricerca di eccellenza italiana finisse all’estero. Ma la vicenda dovrebbe far riflettere su alcuni fatti del bel Paese, in particolare sulla inadeguatezza della giustizia italiana, già sotto la lente dell’Unione Europea, e sul crescente sviluppo di movimenti animalisti che, sotto la bandiera della legittima tutela del benessere animale, si inserisce nelle pieghe della normativa per rallentare o arrestare una ricerca scientifica che porterebbe del bene all’umanità.

 

 


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