TESTO DI

Giuseppe Di Paolo

La storia d'Italia attraverso le canzonette



Il top? "Penso che un sogno così non ritorni mai più". Una mostra ed alcuni incontri per raccontarla

Non è la prima volta che qualcuno prova a raccontare la storia dell’Italia del dopoguerra attraverso la musica leggera e le cosiddette “canzonette”. In genere si tratta di percorsi paralleli, in cui le canzonette fanno da sottofondo alla storia. Più complessa, ma sicuramente più intrigante, è invece l’operazione tentata con la mostra “Noi. Non erano solo canzonette”, allestita a palazzo Belloni di Bologna fino al 12 aprile 2020. Il tentativo è di dare - con le canzonette - una lettura quanto meno di racconto, se non addirittura di premonizione, della realtà dell’Italia di quegli anni, dal boom economico in poi.

La rassegna infatti rilegge la musica leggera italiana dal 1958 al 1982. Ovviamente si tratta di un’analisi ex-post, come ha giustamente sottolineato lo storico Giovanni De Luna, uno dei più acuti lettori dell’Italia contemporanea, intervenuto al primo dei tre incontri che affiancano la mostra, al teatro Duse di Bologna per iniziativa de Il Resto del Carlino e dell’Associazione Incontri Esistenziali (i prossimi appuntamenti l’11 febbraio e il 10 marzo), dove il giornalista Rai Massimo Bernardini ha dialogato con protagonisti dello spettacolo, della politica e dell’economia nazionale.

A dare il “La” al confronto sono state le parole di una delle canzoni italiane più famose nel mondo, tra quelle che hanno venduto più dischi dentro e fuori l’Italia e una di quelle che sicuramente ha impresso una svolta al panorama della musica leggera nazionale. Stiamo parlando di Nel blu dipinto di blu, nota universalmente come Volare, il cui attacco “Penso che un sogno così non ritorni mai più” è stato interpretato come l’annuncio e il racconto dell’Italia del boom economico, di quell’Italia in cui, come ha ricordato il giornalista Oscar Giannino, l’offerta di lavoro superava la domanda e il Pil viaggiava a ritmi da far invidia ai cinesi di oggi, tra il 6 e il 7%, comunque mai inferiore al 4,5% annuo. Un sogno, effettivamente. Che ha subìto una parziale interruzione nel 1964, quando con il primo governo di centro-sinistra (all’incontro era presente Giovanni Salizzoni, nipote di Angelo Salizzoni, sottosegretario di Aldo Moro, che di quel Governo fu il presidente) prende il via la nazionalizzazione di imprese, come quelle elettriche ad esempio, che provoca – ha ricordato Giannino – la prima grande esportazione di capitali all’estero da parte dei privati che si erano visti sottrarre l’attività. Ma sono anche gli anni in cui la Fiat di Valletta, con 2,5 milioni di macchine prodotte ogni anno, mette le famiglie italiane sulle quattro ruote.

E le canzonette? Sono lì, a cavallo tra la vecchia musica melodica e le innovazioni beat/rock, a raccontare l’Italia che si rinnova. Quasi incredibilmente i parolieri e i musicisti erano gli stessi per l’uno e l’altro genere, come ha testimoniato Alberto Salerno, paroliere, figlio d’arte (il padre era Nicola, noto con il nome d’arte Nisa), che ha scritto canzoni sia per Mino Reitano (la melensa Avevo un cuore), sia per gruppi come i Corvi (la contestataria Un ragazzo di strada) e i Nomadi (Vagabondo). “Eravamo eclettici”, ha spiegato Salerno.

A segnare il passaggio verso nuovi temi e aperture dei costumi, nel 1964 arriva a Sanremo Gigliola Cinquetti. Di primo acchito è difficile immaginare qualcosa di più tradizionale della sua Non ho l’età, canzone che ha incantato le nostre nonne per la faccia pulita della giovanissima cantante (16 anni) e per l’invocato rispetto della morale tradizionale. Ma proprio quella canzone (lettura ex-post, ricordiamo) può addirittura (non del tutto a torto) essere letta come il neanche tanto sottinteso sesso promesso e quindi come premonitrice della liberalizzazione sessuale che esploderà da lì a pochi anni.

In quel tempo si diffonde capillarmente la televisione che, con festival vari, gare canore e varietà, porta nelle case italiane la musica leggera. Era la televisione (apparentemente?) paludata di Ettore Bernabei, di cui però la serata al Duse ha dato un incredibile spaccato di liberalità, ripescando un dibattito sulla musica leggera, in cui c’è chi dice a un certo Lucio Battisti “cambia mestiere, non hai voce, non puoi cantare!”. E non si trattava di un matusa nostalgico di Claudio Villa, ma di un giovanissimo che faceva parte di un pubblico non ammaestrato, libero di esprimere la sua opinione su un’icona della musica leggera italiana. La trasmissione, in cui sono volate parole che oggi scatenerebbero polemiche a non finire e forse anche qualche querela, certo restituisce di quella televisione l’immagine di una libertà di confronto che forse non conoscevamo. Non a caso il conduttore era Renzo Arbore, uno dei personaggi più innovatori in radio e in Tv.

Al dibattito non poteva mancare il confronto epocale tra ieri e oggi. È toccato a due donne: Mara Maionchi, discografica di successo, e la giovane Vittoria Gozzi, imprenditrice di se stessa, come si usa dire, testimoniare le diversità e le affinità tra due generazioni lontane. La prima ha iniziato la sua attività di discografica nel pieno del boom economico, rispondendo a un’inserzione su un grande giornale della sera, che cercava una segretaria per l’ufficio stampa di una casa discografica appena costituita (Ariston records). “Non sapevo niente di canzoni e dischi – ha detto la Maionchi – ero una semplice segretaria, ma mi sono buttata”. Oggi è una delle principali discografiche italiane e insieme con il marito (il succitato Alberto Salerno, vamolà) ha avuto nella sua “scuderia” cavalli di razza come Zucchero, Gianna Nannini, Tiziano Ferro, solo per citarne alcuni. La seconda, Vittoria Gozzi, si è affacciata al mondo del lavoro nel periodo delle crisi economiche a raffica, inventandosi Wylab, un incubatore di start-up sportive che oggi vanta nel suo data base 600 mila calciatori professionisti.

Sicuramente due epoche diverse e due ingressi nel mondo del lavoro opposti: la Maionchi ha saputo cogliere le occasioni che le si sono presentate, la Gozzi ha dovuto creare l’occasione inventandosi qualcosa di nuovo.

Hanno però evidenziato un aspetto in comune: la capacità e la voglia di mettersi in gioco.

 

 

 


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