TESTO E FOTO DI

Carlo Maria Milazzo

I baci di Samarcanda



Se il genio fosse uscito dalla lampada e mi avesse detto: -Eccomi, hai un minuto soltanto, scegli ciò che vuoi di granati e di smeraldi!-, io avrei scelto i suoi occhi senza esitazioni (Nizar Qabbani)

 

Andrea abita al piano di sotto. Ha 23 anni e potrebbe essere mio figlio se non addirittura mio nipote. Lui è un nomade compulsivo, un malato di fiaba, un gitano di terra e mare. Anch'io sono stato come lui e, per quello che posso, cerco ancora di attenermi alla favolosa natura girovaga.

Andrea si droga di last minute, gode morbosamente nel toccare il suo zaino, si sente a casa a 10.000 chilometri da casa. E' alto, magro come una matita, coi capelli neri che tendono ad arricciarsi. Ha le orecchie trafitte da diamantini e gli occhi a volte gli vampeggiano. Porta magliette slabbrate e jeans bucati per l'usura, non per omaggio a una moda strappabrache. Ha quattro ideogrammi tatuati sull'incavo dell'avambraccio: per scherzo io gli dico che spero traducano una frase di Seferis, “La prima cosa che Dio ha creato è il viaggio” (in effetti la cacciata dall'Eden costrinse al primo itinerario on the road).

All'inizio di ottobre Andrea ha visitato l'Uzbekistan e siccome un anno fa c'ero andato anch'io l'ho munito di lonely planet, mappe cittadine e di metropolitane, libri dedicati come “Samarcanda, un sogno color turchese” di Franco Cardini o “Il cammello battriano” di Stefano Malatesta. L'altro giorno Andrea è venuto a restituirmi il materiale prestato e mi ha raccontato la sua escursione in centro Asia.

 

Il ragazzo ha preso un volo Bologna-Istanbul, un altro Istanbul-Tashkent e un terzo Tashkent-Urgench. Da ques'ultimo paesone uzbeko è arrivato a Khiva su un taxi collettivo. Khiva è un luogo d'atmosfera: una cinta di mura di fango, lunga due chilometri e mezzo, racchiude madrase, moschee e minareti in mattoni rosati. Il minareto Kalta Minor è il più alto ed è rivestito di piastrelle turchesi. Le strade sono strette, vicoletti resi ancora più angusti da bancarelle che vendono sciarpe di seta, giacche di montone, colbacchi pelosi.

Andrea si è trasferito da Khiva a Bukhara su un autobus di linea. Il punto più scenografico di Bukhara è intorno al minareto Kalon, alto 47 metri e sopravvissuto 880 anni senza restauri. Le sue 14 fasce decorative sono smaltate d'azzurro ma sono tutte diverse. Secondo la leggenda il khan locale uccise un imam durante una lite. La notte, l'assassinato comparve in sogno al khan chiedendogli che la sua testa potesse giacere in un posto dove non fosse calpestata. Il khan fece costruire la torre sulla sepoltura.

Ai piedi del minareto sorge la moschea Kalon, costruita nel 1500 e in grado di contenere 10.000 persone. La facciata è ricoperta da piastrelle blu diluvio su cui svolazzano scritte arabe dorate. La cupola è verde acqua.

Di fronte alla moschea si alza, con le luminose cupole azzurre, la madrasa di Mir-I-Arab, scuola coranica con un chiostro a nicchioni dietro ai quali si allargano le stanze degli studenti. Andrea mi ha fatto vedere una foto sullo smartphone: nel cortile ci sono una ventina di ragazzi moretti, alcuni in piedi, altri accosciati. Compongono una squadra di calcio e Andrea ha posato in mezzo a loro. I giovincelli avevano strappato ognuno un foglio da un quadernetto e vi avevano scritto sopra W MILAN. Pare che l'allenatore, al momento del flash, abbia esclamato “Viva Berlusconi”.

Andrea ha lasciato Bukhara senza comprare i caratteristici coltelli dai manici istoriati o i famosi tappeti rosso scuro. Per Samarcanda ha fatto l'autostop ed è stato caricato da un camionista paffuto, con i capelli corti e dritti, con il sorriso impreziosito da soli denti d'oro. Costui ha cantato per 14 volte “L'italiano vero” di Toto Cutugno. Il camion, addobbato di viola, trasportava meloni oblunghi e giallastri. La strada era tutta un gruviera di buche, alcune profonde come tinozze. Il camionista ha affondato l'acceleratore senza pietà cosicché carico e passeggero hanno saltato in continuazione. Il mio giovane amico ha cercato di ancorarsi a qualche maniglia ma ha sempre avuto le natiche a mezz'aria. Andrea mi ha ricordato il verso di quella canzone: “Non è poi così lontana Samarcanda” ed ha assicurato che, se sei sbattuto per ore come in un frullatore, Samarcanda diventa

lontanissima.

Il camionista si è fermato a un ippodromo, annunciato da una gradinata che guardava un campo rettangolare verde incoronato da una pista ellittica di sabbia.. Un mio opuscolo prestato diceva che sull'anello si svolgevano corse di cavalli montati da zingari. Andrea ha assistito a una partita di Hallal.

Due pertiche sono state piantate sul terreno verde, alle estremità, mentre al centro è stato tracciato un cerchio bianco con la calce viva. Nel tondo è stato adagiato il cadavere decapitato di un montone, portato da un trattorino. Poi sono sopraggiunti al galoppo cavalli bianchi, con strani pois rossi sul manto.

Ho fatto il saccente con Andrea: -Erano cavalli di Ferghana, una volta ritenuti divini proprio perché picchiettati di sangue che, invece, è solo l'esito delle punture di insetti ematofagi-

I fantini, che cavalcavano a pelo, indossavano giacche di pelle chiazzate da colori diversi: uno aveva macchie celesti, uno una striscia rosa, uno delle stelle rosse.

Ad un suono di corno tutti i cavalieri si sono lanciati verso la carcassa, cercando di afferrarla sporgendosi dalle cavalcature. Quello che è riuscito a impadronirsene ha dovuto difenderla dagli altri che tentavano di strappargliela. Il vincitore sarebbe risultato chi, senza farsi derubare del capro senza testa, fosse riuscito a girare dietro la pertica di destra, quindi a percorrere l'intero campo fino a girare dietro a quella di sinistra e infine a gettare la carcassa dentro la circonferenza bianca.

In tribuna un vecchio rugoso con un camicione candido stringeva un mazzo di banconote sum: raccoglieva scommesse e il camionista ha indicato un fantino contraddistinto da spirali gialle.

Il gioco non è consistito solo in corse veloci: è stata una competizione di cacce, inseguimenti, alleanze, cavalli imbizzarriti, finte e ripartenze. Quando il corpo è tornato nel centro era una poltiglia di pelo, ossa, sangue. Il camionista non ha azzeccato il vincitore.

 

Ho fatto di nuovo il saccente. -Tamerlano era spesso a guerreggiare e a far erigere torri di teste mozzate. Nei brevi periodi in cui indugiava a Samarcanda gli piaceva assistere alle gare di Hallal. Seduto su una pila di tappeti contemplava i cavalieri e magari tifava. Accanto a lui si accucciava una tigre albina, maestosa, col pelo bianco appena striato di nero. La belva era stata un regalo di un governatore persiano che l'aveva fatta catturare rimettendoci tre uomini sbranati come biscottini. La tigre, così mansueta con Tamerlano, veniva nutrita con pezzi di cammello o cavallo bolliti in modo che non si eccitasse all'odore del sangue. Il pelo era pettinato da spazzole che, per mantenere una distanza di sicurezza, erano issate su lunghi bastoni-

 

Ho insistito nel fare il saccente: -I cavalli di Ferghana venivano usati dal Grande Emiro in battaglia. Christopher Marlowe, nell'opera “Il grande Tamerlano”, dice che i cavalli bianchi a fine combattimento erano, dal ginocchio fino agli zoccoli, tinti di sangue-

 

Avevo consigliato ad Andrea di andare all'università di Samarcanda a cercare Shoya, una ragazza docente di lingua italiana. Per un modico compenso lei avrebbe volentieri fatto da cicerone. Andrea ha trovato Shoya e me l'ha descritta come la ricordavo: un metro e 65, capelli nerissimi che convergono in una frangia obliqua sulla fronte, occhi scuri affusolati da quel leggero gonfiore mongolo che corre sotto le palpebre. Lei ha le unghie tinte di blu e ogni sei ore cambia sciarpa. Shoya è di etnia tagika, ma nata e vissuta nell'uzbeka Samarcanda: parla correttamente il tagiko, l'uzbeko, il russo (studiato a scuola), l'italiano e l'inglese. Andrea ha riferito che l'italiano di Shoya è strabiliante, colto, forbito, stillante parole che in Italia si usano poco, come “amalgamare”, “sbolognare”, “laconico”. Non un solo congiuntivo o condizionale ha subito violenza da Shoya.

Con la nuova guida Andrea è andato alla tomba di Tamerlano, il mausoleo Gur-e-Amir. Si tratta di un monumento modesto se si eccettua la cupola azzurra e scanalata. Il Grande Emiro si era fatto costruire una piccola cripta per le sue spoglie nella nativa Shakhrisabz, ma quando nel 1405 il sovrano morì in Kazakistan, i passi per la tomba predisposta erano chiusi per neve. La illustre salma ripiegò al Gur-e Amir che forse era stato edificato per un nipote dell'Emiro.

Ho continuato a fare stucchevolmente il saccente: -Tamerlano tirò le cuoia in mezzo alla steppa ghiacciata mentre promuoveva una spedizione contro i cinesi. I suoi luogotenenti gli fecero notare che il freddo e gli agenti atmosferici avrebbero decimato l'esercito ed allora il Grande Emiro stette tre giorni nudo nella tormenta per dimostrare le possibilità di resistenza. Christopher Marlowe, del resto, gli mette in bocca queste parole: “Ho incatenato il Destino, faccio girare la ruota della Sorte, dovrà cadere il Sole prima che Tamerlano sia morto e vinto. La mia pelle è stregata!-

-Peccato che il gagliardissimo crepò di polmonite dopo quelle tre giornate fuori dalla tenda- ha concluso Andrea.

Le lapidi hanno una funzione puramente indicativa nel mausoleo: le cripte sono in camere sottostanti. La lapide di Tamerlano è formata da un unico blocco di giada verde. Poi si osservano le lapidi dei figli Shah Rukh e Miran Shah. C'è anche la lapide di Ulughbeg, nipote amatissimo, un fenomeno nella matematica e nell'astronomia: su questa pietra è scritto un monito forte e vero, ”Rifiuta la vita prima che lei rifiuti te”.

L'antropologo sovietico Michail Gerasimov spalancò la cripta nel 1941 e confermò che Tamerlano era alto per i suoi tempi (m 1,70) ed era menomato alla gamba e al braccio destri per ferite riportate intorno ai 25 anni. Secondo l'aneddoto di Shoya, Gerasimov trovò sulla tomba dell'Emiro un'iscrizione che enunciava: “Chiunque aprirà questa tomba verrà sconfitto da un nemico più terribile di me”. Il giorno dopo la scoperta, 22 giugno, Hitler attaccò l'Unione Sovietica..

 

Shoya e Andrea sono stati al bazar e il ragazzo me l'ha raccontato pulito, coi negozi che vendono ceramica, arazzi ricamati, magliettine disegnate. Sotto un'enorme tettoia i banchi in pietra della frutta e della verdura espongono ordinatamente mele, meloni, fragole (ad ottobre!), ravanelli, barbabietole, melanzane, peperoni, pomodori. Trionfano anche coloratissime insalate pronte e signoreggiano pile di vasi di miele. Su alcuni barbecue profumano spiedini d'agnello o di manzo.

A nord del mercato incombe la gigantesca moschea di Bibi-Khanym, ultimata prima della morte di Tamerlano e certamente il gioiello del suo impero. La cupola verdeazzurra è alta 41 metri e il cortile

contiene un enorme leggio di marmo per il Corano.

Shoya ha narrato la storia della Sposa Principale (ciò vuol dire Bibi-Khanym) del poligamo Tameralano, una principessa cinese di stirpe imperiale che fece innamorare l'architetto persiano alla direzione dei lavori. In assenza di Tamerlano, la moglie insisteva perché si costruisse in fretta. Ma l'architetto faceva procedere a rilento gli operai, per poter rivedere ancora e ancora la sua amata. Davanti alla caparbietà della donna, l'architetto promise all'improvviso di concludere presto la moschea, ma chiese un bacio in ricompensa.

La Sposa propose al costruttore tante bellissime ragazze della corte ma l'architetto rifiutò spolverando la metafora che i bicchieri sono uguali ma è quello che vi è dentro, acqua/vino/liquore, che rende i bicchieri diversi. Comunque, dopo molte esitazioni, la principessa porse una guancia, ma l'ardore dell'archietetto lasciò addirittura il segno del bacio: un virgolone, uno slash stile Nike, restò a schiarire la pelle ambrata della donna.

Pare che Tamerlano abbia costretto la principessa a coprire il volto con un velo (il primo niqab) mentre per il baciatore fu emesso verdetto di morte. L'architetto si arrampicò però in cima alla cupola della moschea e si buttò. Forse perché sciamano o forse perché aggrappato a un pensiero felice che lo rendeva leggero, l'architetto prese a volare e probabilmente, acchiappando un tappeto anch'esso volante, si dileguò in direzione della Persia.

 

Una sera Shoya e Andrea sono andati al ristorante a mangiare il plov, meraviglioso miscuglio di riso, peperoni cotti, carote gialle e unti bocconi di agnello. Gli uzbeki affermano che è un cibo afrodisiaco, garantito dal fatto che nella loro lingua la parola plov si traduce con “preliminari”.

Dopo cena i ragazzi hanno raggiunto a piedi il Registan, cantando lungo la strada Battisti, Ligabue, Jovanotti. (Anche se il cantante preferito in Uzbekistan è Pupo). Il Registan è una delle piazze più belle del mondo, soprattutto di notte quando i riflettori valorizzano il colore smeraldo delle cupole e quando la luna sembra proprio essere stata inventata in Oriente. I tre edifici che lo compongono sono madrase antichissime: sul lato occidentale la madrasa Ulughbeg, straripante del blu di migliaia di piastrelle, fu terminata nel 1420. Sotto le cupole poste agli angoli stavano le aule universitarie.

Di fronte è la madrasa Sher Dor (1636), decorata da leoni ruggenti a dispetto della proibizione islamica di raffigurare animali.

Tra le due costruzioni fa da trait-d'union la madrasa Tilli Kari (1660), dotata di cortile con giardino. Il suo fiore all'occhiello è la moschea, caratterizzata da un soffitto in lamine d'oro che è piatto, anche se i disegni affusolati danno l'impressione che sia concavo.

 

Prima di andarsene da casa mia Andrea mi ha detto: -Shoya mi ha accompagnato fino alla stazione ferroviaria, dove dovevo prendere un treno veloce per Tashkent. L'ho salutata con due baci sulle guance e sai cosa?...Le ho lasciato sulla pelle due segni a forma di mezzelune-

 

 


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