TESTO DI

Lisa Bellocchi

FOTO DI

Studio Esseci

Ai musei di San Domenico
A Forlì il Decò ruggente



Un grande totem, raffigurante una mano decorata, accoglie i visitatori davanti ai Chiostri di San Domenico. E’ la riproduzione ingigantita di un’opera che l’architetto Giò Ponti presentò a Parigi nel 1935, ridecorando gli stampi industriali realizzati in porcellana dalla Richard-Ginori e necessari per la fabbricazione dei guanti di gomma. Da uno strumento meramente tecnico all’opera d’arte: la sintesi concreta della “bellezza” industriale. E’ la prima proposta di lettura che offre la mostra “Art Deco. Gli anni ruggenti in Italia” in corso a Forlì fino al 18 giugno. La rassegna, promossa dalla locale Fondazione Cassa dei Risparmi, è curata da Valerio Terraroli e diretta da Gianfranco Brunelli; il comitato scientifico è presieduto da Antonio Paolucci.

Nel restaurato convento si susseguono quadri e sculture, vasellame ed abiti, gioielli e mobilia, stoffe e lampadari, riproducendo la pirotecnica offerta di oggetti “belli” che la borghesia dell’epoca poteva acquistare, o sognava di. Quell’epoca – e quel gusto – hanno marcato grande parte dell’odierna sensibilità.

Il punto cronologico si situa convenzionalmente attorno al 1925, quando a Parigi si tiene il Salon des Arts decoratifs, abbreviato già allora in “art déco. Il movimento investe tutta l’Europa, radicandosi profondamente anche in Italia. E’ un momento di grandi innovazioni sotto il profilo artistico, e tutto ciò si travasa nel giovane mondo industriale, che insegue l’arte consapevolmente e vuole applicarla alla cifra produttiva. 

I vetri di Venini, le lampade di Fontana, le sete di Ratti, le ceramiche Richard Ginori progettate da Giò Ponti, i gioielli di Ravasco… Nomi importanti, veri e propri pilastri nella costruzione del made in Italy, uniti da una comune caratteristica: ancor oggi sono considerate tra le più famose aziende nate nel nostro Paese nello spumeggiante decennio in cui furoreggiava la cosiddetta “art déco”. Ancor oggi, nominarle, significa evocare il “bello”. 

L’auspicata stretta convivenza tra eleganza artistica e produzione industriale era già stata affrontata in altri Paesi. Sul finire del XIX secolo, oltre Manica si era sviluppato il movimento “Arts and Craft”, per recuperare il bello nel ciclo industriale. Nel mondo germanico all’inizio del XIX secolo nascevano organismi come il Deutscher Werkbund, destinato a far cooperare artisti ed artigiani. 

In Italia, il giornalista e scrittore Ugo Ojetti insisteva per una riforma delle scuole d’arte, affinché allo studio teorico e all’atelier si abbinassero attività pratiche in officina. Come ricorda Stefania Cretella nel Catalogo alla mostra, nacque così, nel 1922, tra Milano e Monza, un Consorzio finalizzato a costituire l’Università delle Arti Decorative, poi ribattezzata Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (ISIA). 

Il tema dell’alta formazione, artistica e tecnica insieme, verrà riaffrontato un secolo dopo con l’Istituzione, nel 2010, degli Istituti Tecnici Superiori, che offrono percorsi formativi territorialmente legati alle eccellenze del made in Italy (sistema moda, sistema turismo, sistemi industriali…) e proprio per questo producono ottimi effetti anche sotto il profilo occupazionale. 

Il periodo déco è lo stesso in cui nascono i primi cinematografi e le prime crociere per diletto. Lo stile del tempo si riflette e si perfeziona nell’allestimento delle sale e nella decorazione dei grandi transatlantici. La mostra di Forlì propone numerosi interessanti manifesti propagandistici di film, crociere e parti di arredo. Nel Catalogo, Matteo Fochessati accompagna a riconoscere le mutazioni stilistiche e funzionali nell’arredamento dei “giganti del mare”, fino al “monumentalismo” degli sfarzosi saloni del Rex, ammiraglia della flotta italiana varata nel 1932 e vincitrice nel 1933 dell’ambita onorificenza del Nastro Azzurro. Chi non abbina il nome e il transatlantico allo struggente “Amarcord” di Fellini?

La storia delle arti decorative dell’epoca déco è una storia di contaminazioni e rimandi culturali continui, in un mondo già molto più globalizzato di quanto oggi s’immagina. L’eclettico pittore, ceramista e restauratore fiorentino Galileo Chini nel 1910 venne invitato dal re del Siam a affrescargli la sala del Trono a Bangkok; riporterà in Italia il gusto sperimentato nel Paese orientale e ne farà la cifra per decorare le Terme Berzieri di Salsomaggiore. E spira un venticello thailandese anche su scenografie e costumi che Chini prepara per la messa in scena di Turandot, alla Scala, il 25 aprile 1926. Un’altra effigie di Turandot costituisce il logo della mostra forlivese: quella predisposta dalla Ricordi per la prima assoluta dell’opera pucciniana. “Una Turandot più borghese, questa volta truccata all'orientale, ai limiti della finzione cinematografica: prodotto dell'esperienza consumata di Leopoldo Metlicovitz” annota in Catalogo Valerio Terraroli, al quale si deve un’avvincente sintesi del periodo Déco: “I fuochi d'artificio, gli zampilli delle fontane, gli ammiccamenti civettuoli, l'incedere felino, il fascino dell'androgino, il cinismo snob, le più suadenti e conturbanti declinazioni dell'eterno femminino; l'ambiguità delle figura maschile, guerriero e danzatore, damerino e pellegrino stanco; l'antichità scherzosa, l'Oriente da salotto, il charleston, il ritmo meccanico, la linea saettante, la ricerca inesausta del piacere di vivere: questo è stato, in sostanza, il Déco”. Ma – prosegue Terraroli - il Déco è stato anche un'impareggiabile fucina di idee, il momento in cui la tradizione artigiana si trasforma in industria manifatturiera; la via per la quale le arti decorative si avviano a diventare prodotto di design; l'esperienza in cui si forgiano le competenze del “Made in Italy”. 

 

 


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