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TESTO DI

Carlo Maria Milazzo

Non ammazzare, se non ti chiami Giuditta

dalla mostra di Gustav Klimt

“Gli autori di omicidio non erediteranno il regno di Dio. Saranno infatti scaraventati nello stagno ardente di fuoco e di zolfo”. Questo scrive Giovanni nell'Apocalisse, ribadendo peraltro quanto già dichiarato in una sua lettera: “Nessun omicida ha la vita eterna”.
 

Eppure la Bibbia è ricca di episodi di killeraggio che però non conducono ad una condanna divina, anzi hanno una loro santa giustificazione, quasi che il quinto comandamento di Mosé potesse essere postillato: “Non uccidere, ma se proprio devi....” Si pensi a Sansone, una sorta di precursore dei kamikaze: con la sua forza fa crollare il tempio rimettendoci la vita ma soprattutto togliendola a tanti Filistei che, essendo nemici degli Israeliti, ricevono una punizione esemplare. Oppure si pensi a Davide che ammazza il gigante Golia, altro personaggio dei Filistei destinato a sfidare un rappresentante degli ebrei per dirimere quale popolo dovesse sottomettere l'altro: Davide, si sa, fa secco il grande antagonista con un sasso tirato dalla propria fionda. Ma in special modo si pensi a Giuditta che nel libro a lei dedicato, dopo aver decapitato Oloferne, viene celebrata come una vera e propria eroina.
 

La legittimazione di un assassinio da parte di Dio deve aver tormentato le menti di tanti esegeti della Bibbia e di tanti fra quelli che vengono definiti padri della Chiesa. Sant'Agostino ritiene ad esempio che ci siano guerre volute da Dio per castigare gente crudele. San Cirillo d'Alessandria, probabile mandante dell'eliminazione della filosofa Ipazia, motiva alcune stragi come frutti della devozione al Signore. Ma quello che ha trovato l'assoluzione più convincente al delitto in nome di Dio è stato Bernardo di Chiaravalle, il monaco che si arrabattava per discolpare le cruente azioni dei Templari in Terrasanta. Bernardo, regolarmente santificato nel 1174, ha inventato il sostantivo “malicidio”, intendendo con tale parola il fatto che se qualcuno uccide un malfattore, quello non deve essere considerato un omicida ma appunto un malicida, un soppressore della sorgente del male. Per Bernardo non è un crimine affettare come una zucchina un infedele, un saraceno rozzo e malvagio; anzi è opera meritoria giacché estirpa l'ignoranza dal mondo.
 

Se ritorniamo ora a Giuditta e applichiamo a lei il termine “malicida” forse potremmo chiudere in due righe il suo delitto, la sua mancata scomunica e l'ovazione plebiscitaria dei suoi concittadini. Giuditta si trova infatti a far fuori il generale del re assiro Nabucodonosor, un condottiero spietato che, a proposito dei popoli da affrontare, proclama: “Li bruceremo in casa loro, i loro monti s'inebrieranno del loro sangue, i loro campi si colmeranno dei loro cadaveri” (LdG, Libro di Giuditta). Il comandante ha presidiato la fonte che fornisce l'acqua a Betulia, il paese della donna, e sta attendendo in panciolle una resa per sete. Se non si può ammazzare uno così......
 

Ma infilare una spada in un collo umano per fargli vomitare insieme globuli rossi ed anima non è un'azione che si possa liquidare con una sola parola. Una uccisione scatena senz'altro sentimenti contrastanti che fanno dell'atto assassino un incrocio di pulsioni. I due quadri dedicati da Gustav Klimt a Giuditta, recentemente esposti al Museo Correr di Venezia, ci possono forse aiutare a comprendere la mescolanza emotiva in un sicario.
 

Klimt dipinge la prima versione della protagonista biblica nel 1901, riproducendo Adele Bloch-Bauer, nobildonna di origine ebrea dalla bellezza non accesa. La tela viene incastonata in una cornice di rame che porta la scritta sbalzata JUDITH UND HOLOFERNES. Lo sfondo è abitato da alberi stilizzati in stile miceneo.

 

Giuditta è ritratta frontalmente ed il volto appena inclinato, le conferisce un atteggiamento teatrale. La sensualità che ancora la pervade le fa testimoniare che non sta ripudiando l'arma della seduzione, usata per abbindolare Oloferne. (Le guance arrossate, le labbra dischiuse su denti bianchissimi, il rossetto violento come un cazzotto, le palpebre in un'estasi fittizia, il mezzo seno scoperto ratificano la sua abilità seduttiva). Però questa Giuditta esprime anche la sicurezza di una donna emancipata e manifesta un aristocratico distacco, rimarcato dalla grande quantità di oro risplendente nell'abito e nel collier. Il suo snobismo si estende pure nei confronti della testa di Oloferne, che le sue lunghe dita sembrano spingere lentamente fuori dal quadro.                               
 

Tale Giuditta parrebbe dirci: “Non rinnego la mia azione. Ho dovuto farla, per sostenere un principio divino, per un normalissimo atto di giustizia verso un barbaro invasato”. E magari questa eroina potrebbe ricordarci che nel libro della Bibbia sono menzionate le quattordici generazioni che l'hanno preceduta (quando nella Bibbia si elenca la sequela di avi lo si fa per avvicinare il più possibile un personaggio al primo progenitore, Iddio stesso). E questa Giuditta potrebbe inoltre rammentarci che lei ha regolarmente pregato per ottenere la licenza di uccidere: “Signore, guarda propizio in quest'ora all'opera delle mie mani per l'esaltazione di Gerusalemme. E' venuto il momento di pensare alla tua eredità e di far riuscire il mio piano per la rovina dei nemici. Dammi forza, Signore, in questa circostanza” (LdG).
 

La seconda versione di Giuditta viene dipinta dal pittore austriaco nel 1909. Il formato è sensibilmente diverso dalla prima tela: questa volta Klimt segue le influenze del giapponismo e pone la donna in un formato allungato e incorniciato da due bande di legno dorate. Lo sfondo è solo arancione, ornato appena da qualche spirale gialla.
 

La nuova Giuditta è sorpresa mentre si muove verso un luogo alla sua destra ed offre all'osservatore il suo lato sinistro. La donna non dialoga più con lo spettatore tramite lo sguardo frontale: è una donna presa solamente da sé, dalla propria forza viscerale, dalla propria fierezza amazzonica. Il volto, assai più magro rispetto a quello della prima modella, traina un blocco di capelli neri come se volesse tirare la notte a mo' di sipario sul mondo. Lo sguardo ha il retrogusto del piacere ma non si sofferma su chi o cosa abbia indotto il piacere. Il neo vicino all'occhio è il timbro che autentica comunque la femminilità. Al collo non c'è più l'oro stupefacente, ma la genuinità di alcuni fiori. Il seno è ostentato come perfezione della carne.
 

La donna se la sta svignando dalla scena del crimine, come denunciano la postura arcuata e la gamba nell'atto di compiere un passo sotto quel vestito variopinto che sessant'anni più tardi avrebbe suscitato l'invidia di ogni ragazza hippie. L'andarsene non è però silente oppure riparato nella crisalide dell'altezzosità: un punto di corrispondenza con chi guarda, Giuditta lo vuole comunque creare. E l'interazione avviene con un dettaglio che irrompe prepotente: le mani rosa chiaro, centrali nella tela, racchiuse da due strani festoni bianchi. Le mani, con  polsi così snodati e dita così lunghe da poter suonare due pianoforti in contemporanea, hanno forma di artiglio e quando l'artiglio, sia esso di aquila o di essere umano, ghermisce la preda, allora da quella propaggine unghiata parte un'estasi che si spande subito in tutte le vene. I polsi sono poi tintinnanti di un numero esagerato di gioielli, come del resto racconta la Bibbia: “deposte le vesti di vedova, cinse le collane e infilò i braccialetti, gli anelli e gli orecchini e ogni altro ornamento che aveva e si rese molto affascinante agli sguardi di qualunque uomo che l'avesse vista” (LdG).

 

È poi interessante notare come anche nella Giuditta numero 2  il capo mozzato di Oloferne abbia un ruolo marginale. La donna se lo porta appresso ciondolante, tenendolo per i capelli che formano una sorta di manico ed esibendolo come una borsetta di Gucci.

In conclusione: la prima Giuditta di Klimt ha una convinzione pari a quella di Dio quando decide un'opera mentre la seconda Giuditta ha istinto e ferocia animali. Signore e Signori, la ricetta per un omicidio è tutta qui.