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TESTO E FOTO DI

Mirella Golinelli

Orfeo, una lezione d'amore

Il mito attraversa i secoli in musica, pittura e letteratura

 

Orfeo, parlando degli dei, dice che “tutti gli dei, sono una medesima cosa racchiusa sotto diversi nomi”, intendendo che il messaggero ha valore per tutti: Marte – la guerra, Venere – la pace, Temide – la giustizia, Nettuno – mare, Cerere – i grani, le Ninfe – acqua e Vulcano- fuoco.  Questo propone l'ermetismo che non è da intendersi come corrente letteraria della quale fecero parte Ungaretti, Quasimodo, Luzi e Montale ma come quel fondamento sul quale si basano simbologia e tematiche dell’erudizione alchemica.

Orfeo, figlio del padre della poesia, Apollo, fu il primo a portare la religione egizia in Grecia; inoltre fu anche il primo a parlare dei rimedi di molte malattie, alle quali si poneva sollievo, attraverso la medicina solare, la forza dell'amore (come scriveva Virgilio nelle Bucoliche X.69 “Omnia vincit Amor”), la simpatia e le pietre preziose, le quali entrano in contatto empaticamente con tutto ciò che è naturale.

Nell' eg(c)loga VIII delle Bucoliche si trovano elementi rituali di magia che erano fissati nella cultura del popolo romano. Virgilio, parlando di Orfeo poeta, lo associa agli stessi effetti contrastanti che produce il sole il quale, con il fuoco ed il calore, rammollisce ed indurisce la materia “Limus ut hic durescit, ed haec ut cera liquescit”. Il suono della sua lira produceva effetti strabilianti: domava le fiere, immobilizzava il volo degli uccelli in aria, fermava il corso dei fiumi ed il suo prezioso strumento era il simbolo della sua poesia. Gli antichi pensavano che Orfeo fosse un mago egizio, poiché era a conoscenza di molti segreti della Natura. Apollonio di Tiana e Democrito, entrambi filosofi, pare fossero in grado di capire il linguaggio degli uccelli ed attraverso la lavorazione del sangue di alcune specie, citate nei loro scritti, si produrrebbe un serpente che, se mangiato, infonderebbe la conoscenza ornitologica. Platone ed Ippocrate, i quali ammiravano la saggezza di Democrito e consideravano le sue parole “auree”, li indicano come aquile ed avvoltoi. Secondo un'antica leggenda, fu Apollo a donare la lira ad Orfeo e furono le Muse ad insegnargli a suonarla in modo tanto sublime che, le rocce, gli oggetti inanimati, gli animali selvatici e la flora rimanevano soggiogati dal suo echeggiare. Ad Orfeo si attribuisce anche il fatto d'aver iniziato alle Orge, il re della Frigia, Mida.

Tutto ciò che Mida toccava si tramutava in oro, poiché aveva espresso un desiderio che però l'avrebbe fatto morire di fame se non se ne fosse sbarazzato, lavandosi le mani dietro l'imposizione di Bacco, nel fiume Pattolo, al quale doveva comunicare la “virtù” della quale si stava liberando. Virgilio nelle Georgiche (IV) ed Ovidio nelle Metamorfosi (X) fanno cenno al viaggio di Orfeo all'Inferno. Egli stesso ci narra la sua pretesa discesa nel Regno di Plutone (Argonautica), per ricercare la sua amata sposa Euridice ed ella, per sfuggirgli, viene morsa al tallone da una serpe, il cui veleno le procurerà la morte. Il dolore per Orfeo è immenso e, presa la sua lira, decide di scendere nell’impero dei morti. Qui trova Plutone che, commossosi, gli annuncia che avrebbe rivisto la sua amata ancora nel soggiorno dei viventi ma, la bramosia di rivederla impedirà ad Euridice d'esser ricondotta in quel mondo; perciò il loro grande amore, fatto di concordia e di desiderio di riunirsi, non sarà mai coronato, poiché il termine d'attesa, predetto dalla Natura, non era stato rispettato. La Natura ha i suoi tempi ed è inutile anticiparne gli eventi, come volle fare Orfeo, il quale perse per sempre la sua Euridice.

I grandi filosofi, raccomandano la pazienza e la moderazione; senza queste virtù i frutti della nostra vita saranno sempre acerbi. Orfeo impazzì dal dolore, per aver disobbedito a Plutone ed essersi voltato a guardare Euridice, prima ch'ella avesse raggiunto il mondo dei vivi. Le Menadi, durante l'adorazione di Bacco, dilaniarono il corpo d'Orfeo e ne sparsero le membra, che vennero raccolte e seppellite dalle Muse. Il tema più caro a molti artisti rimane “Orfeo e gli animali”, poiché in maniera allegorica, molti di loro, hanno raffigurato la pace dei regni animale e vegetale, nei quali ogni animale o pianta, non è sopraffatto da un simile. Giovanni Bellini (1430 – 1516), pittore, cognato del Mantegna (1429 – 1507) e grande padrone del colore e degli effetti luci/ombre, venne molto apprezzato da Alfonso d'Este, il quale, gli commissionò il famoso “Banchetto degli dei”; tale opera costituì il “biglietto da visita” che gli aprì le porte della Serenissima, dove rimase dal 1483 alla morte. Il Giambellino (questo era il suo pseudonimo) argomenta la vicenda di Orfeo, sottolineando pittoricamente la figura umana, come si vede nel dipinto conservato alla National Gallery of Art di Washington- coll. Widener. Largo spazio alla Natura è dato in un’opera dello stesso tema, firmata dall’artista fiammingo Roelandt Savery.

La scuola neoplatonica di Firenze studiò la diffusione, nell'antica Grecia, del culto orfico. Pico della Mirandola nel suo “De Hominis dignitate” asserisce che solo pochi iniziati sono in grado di comprendere il messaggio profondamente religioso trasmessoci dagli inni orfici a carattere fiabesco. Egli morì a soli 31 anni e nei suoi soli sei lustri di vita (1463 – 1494) fu considerato dal Poliziano come la “fenice dell'arguzia”. Il suo smodato desiderio di conoscenza lo condusse ad interpretare la qabbalah, nella quale credeva d'aver trovato il concetto quintessenziale della verità, con cui si potevano armonizzare sia le scritture che la filosofia profana. Purtroppo, il cardinale Alessandro Borja (che diventerà Papa nel 1492) lo accusò di eresia. A nulla valse l'“Apologia” che lo stesso Pico scrisse nel 1489 per scagionarsi. Dopo l’anatema, si ritirò a vita austera e piena di privazioni e morì per febbre.

L'ermeneutica del “Simposio” di Platone trova in Pico ed in Lorenzo de' Medici due concordi esponenti che decodificano la vicenda di Euridice come l'esperienza iniziatica che avvicina l'amore alla morte. In ambito letterario la leggenda di Orfeo fu prodotta da Angelo Poliziano. Il suo “dramma pastorale” è intriso di brani che rappresentano, nella Mantova cinquecentesca, un preludio alle versioni operistiche che seguiranno. Cicerone riferisce d'aver letto un libro d'Aristotele – malauguratamente perduto – nel quale si affermava che Orfeo ed Euridice non erano esistiti. Ottavio Rinuccini realizzò un libretto d’opera sull'argomento e ne vide la partitura due anni dopo, da parte dei compositori Jacopo Peri (1561 – 1639) e Giulio Caccini. Quest’ultimo fu anche cantante della Camerata de' Bardi, nel salotto fiorentino di Giovanni Bardi. L’esibizione vocale del Caccini, che gettò le basi del “recitar cantando”, fu molto apprezzata da Cosimo de' Medici, il quale ne decretò la fama; perciò la sua prima opera, “Euridice”, rivaleggiò con quella d'omonimo argomento del più famoso Peri.

Nel 1607 a Mantova, venne rappresentato l'“Orfeo” di Claudio Monteverdi (1567 – 1643). Nel 1858 J. Offenbach compone l'operetta “Orfeo all'inferno”. Nel XX secolo, anche Ernst Krenek, Darius Milhaud ed Alfredo Casella, con la sua trilogia, mettono in musica la favola “ermetica”, così come aveva fatto Franz Listz nel 1853 con il suo “poema sinfonico”, mentre Igor Stravinsky musica, nel 1947, il balletto classico “Orpheus”.

La più grande opera nella quale è stato trattato il mito greco è quella di C.W. Gluck, con una prima versione del 1762. Il genio gluckiano, avendo tolto il virtuosismo vocale voluto dalla “riforma” firmata appunto da lui e da Ranieri de' Calzabigi, conferì ai ruoli di Orfeo, Euridice ed Amore, una linea melodica ancora più grave e drammatica, che solo la forma “oratoriale” può donare. Magnificente per ricchezza e regia fu l'interpretazione del più noto direttore d'orchestra del Novecento, Massimo de Bernardt che a soli 54 anni cedette la bacchetta per passare a miglior vita dopo una lunga malattia. Egli fu molto sensibile ed attento ai “talenti”; nel 1987, per i Teatri del Circuito Veneto, diresse una compagnia di giovani cantanti lirici (che sono a tutt'oggi in carriera) nel capolavoro di Gluck.