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Paolo del Mela

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“S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui…”

Il poeta ribelle

La campagna toscana brilla come un diamante al sole. Si è vestita in anticipo dei colori più belli rubati alla tavolozza della primavera. Sulla scena teatrale, si piegano le messi, accarezzate da un tiepido vento, punteggiate qua e là dalle macchie rosse di superbi papaveri e ingentilite dall’azzurro timido di qualche fiordaliso. Una quercia imponente spande intorno la sua ombra generosa, mentre filari di cipressi punteggiano i fianchi delle rigogliose colline senesi. Sono gobbe delicate, sinuose, come le terga di una giovane addormentata. La strada sterrata e polverosa si snoda come un nastro leggero e accoglie lo scalpitìo di un cavallo che porta un rubicondo cavaliere, il mantello sbatacchiato dal vento, il viso colorito e rubizzo, le spalle gonfie. Lo sguardo spavaldo. Tra la polvere, sollevata nel turbinìo di quella che ha tutta l’aria di una fuga, appare la figura scomposta di una giovane che , scarmigliata, corre ricomponendosi le vesti e togliendo spighe di grano dai capelli rossi sciolti nel vento. “Cecco! Cecco!” grida. Ma Cecco scompare  oltre la collina. Allora si sdraia sfinita sotto una quercia. La giovane, il cui nome è Becchina, soffre d’amore per Cecco, una storia tormentata, violenta, fatta di ripicche e dispetti. Lui è Cecco Angiolieri, stravagante poeta “maudit” del XIII°  secolo, senese beffardo, che nasconde dietro la maschera insolente un animo disperato e cinico. Il suo vessillo è “DE LUXURIA, DE DADO, DE TABERNA”. E’ un tipo pratico, si accontenta di quello che può avere con pochi denari e odia il padre, banchiere di Papa Gregorio IX, che , avaro, tiene ben chiusi i cordoni della borsa. Così tra maledizioni e minacce il suo pensiero corre a Becchina “oncia di carne, libra di malizia” ben lontana dal rappresentare le “madonne” dello Stil Novo, un’anti- Beatrice per intendersi. Ella riesce a suscitare in Cecco sentimenti contrastanti ma a volte l’indifferenza della donna “men che d’una paglia che le vada tra i piedi”, (scrive Cecco) provoca in lui una stizza feroce, esagerata, capace di aumentare le sue smanie e di fargli maledire l’amore che prova per lei. E di conseguenza, deluso, indispettito, ferito da questa marea di sentimenti, si rifugia nei componimenti poetici e la sua lirica straordinaria (siamo nel XIII° secolo) è come un fiume in piena che , rotti gli argini, può finalmente spandersi in libertà. Irriverente e litigioso pare che non abbia risparmiato neanche il Sommo Poeta. Si pensa che tra di loro non corresse buon sangue, al punto che un vivace scambio epistolare sfociò e si concluse in un sonetto: “Dante Alighieri, i’ t’averò  a stancare / ch’eo so’ lo pungiglion, e tu se’ ‘l bue”. Cecco, incapace di darsi un freno espressivo, non rispetta i sentimenti, non risparmia nessuno, si tratti anche della fede o di Dio. Esalta il denaro, disprezza la miseria, confida nella morte dell’avaro padre per potersi godere i denari accumulati dall’anziano genitore. Altro che parenti, sostiene Cecco, i veri parenti sono i fiorini “ I buoni parenti, dica chi dir vuole, a chi ne può aver, sono i fiorini” capaci di dare benessere, gioia, rispetto, salute, perché realizzano tutti i desideri. Al culmine di una crisi profonda, Cecco lancia un anatema poetico e ci piace immaginarlo ritto su una delle tante colline senesi, e perché no alla Badia di San Vigilio, dove dimorava il padre, intento a creare la sua lirica più celebre, le braccia levate al cielo, lo sguardo fiammeggiante…S’i’ fosse foco, arderè il mondo…sfogando nei versi il suo umore bizzarro, lanciando estrose invettive e bestemmie. E’ abile nelle rime, è a suo agio, le gestisce e le manovra come fili di seta, creando per un uditorio in quel momento invisibile ma che, poi, gli avrebbe riconosciuto l’immortalità, versi violenti come schiaffi, situazioni paranormali, in un crescendo dispettoso e martellante. E dopo aver flagellato il mondo con incendi, alluvioni e tempeste; dopo aver coinvolto Dio e il Papa e l’Imperatore nelle sue esternazioni e non aver risparmiato neanche i genitori, augurando loro la morte, cede infine alla sua natura gaudente e materiale aprendo le braccia alle donne giovani e leggiadre, Becchina compresa, catturandole in un allegro girotondo e cacciando le donne vecchie. In fondo è l’unica realtà possibile per questo poeta in perenne contrasto con se stesso, ma sempre pronto allo scontro, spirito angosciato e insofferente, a volte giocoso, che riesce a coinvolgere chi lo legge e a strappargli un sorriso.