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TESTO E FOTO DI

Mirella Golinelli

Emilia Romagna: terra di pozzi a rasoio

 

 

Il fenomeno dei “pozzi a rasoio” è detto “incastellamento” ed ogni famiglia che possedeva un Castello - al fine di proteggersi da individui i quali potevano introdursi furtivamente nella fortezza - ne faceva costruire al suo interno, uno e, magari, veniva sorteggiato tra la servitù chi per primo ne avrebbe provato l'ebbrezza che, sicuramente, non avrebbe raccontato. Essendo i fortilizi costruiti maggiormente in luoghi semicollinari o montagnosi ed avvalendosi quindi dell'altezza - perciò della possibilità di scavo - si erigevano in essi questi budelli che, con un diametro non superiore alla larghezza delle spalle, non avrebbero consentito nessun movimento al reo, ma gli concedevano l'unica certezza: un’atroce fine. Entrato nel tunnel verticale, il colpevole, veniva attratto alla fine del pozzo dal peso del corpo, il quale, durante la corsa, aumentava la velocità e le lame trapassavano la massa che, per lo smembrarsi delle carni, moriva lentamente, per dissanguamento.
Tra le Signorie più importanti, in Emilia -Romagna, vi furono: i Da Polenta a Ravenna, i Malatesta a Rimini, gli Ordelaffi a Forlì, i Manfredi a Faenza, gli Alidosi a Imola, i Farnese a Parma e Piacenza, gli Este a Ferrara, Modena e Reggio ed i Bentivoglio a Bologna. Nei loro manieri, le testimonianze di “sale di tortura” (corredate dei relativi “pozzi” che, sotto certi aspetti, mantenevano puliti i locali dalle “buzzonaglie” umane) sono innumerevoli. In epoca medievale, l’uso di questi mezzi fu molto praticato e proprio in questo periodo nacquero parecchie leggende. Comunque, le “sale” venivano collocate distanti da orecchie indiscrete ed in esse, dietro approfonditi studi sul come far maggiormente soffrire il malfattore, si innalzavano macchine di tortura. Per chi volesse approfondire l'argomento: “Piaceri e crudeltà storiche” di Jadis Paul – Nerbini, Firenze.

L'altezza dei torrioni (ultimo girone), unita al dirupo, permetteva la massima accelerazione al corpo umano, poiché esso poteva essere gettato anche da oltre 50 metri di quota... sempre tra le mura domestiche, dove, per mantenere ordine nel territorio, le decisioni erano inappellabili e veloci. Ne è un esempio Caterina Sforza, signora di Imola, Forlì e Dozza, che, per gettarvi dentro - dicono – gli amanti possessivi, fece costruire un pozzo rasoio di 55 metri (equivalenti a 95 braccia fiorentine; 1 braccio 0,5836 = poco meno di 60 cm.), nella Fortezza di Castrocaro, dove, dalla sua unione con Giovanni de Medici, cugino di Lorenzo il Magnifico, nacque Giovanni dalla Bande Nere. Ancora oggi il pozzo è coperto da rottame e, nessuno sa che cosa vi sia relegato. Nel castello Sismondo di Rimini, i colpevoli venivano fatti inginocchiare davanti all'immagine della Madonna dipinta sul muro e, durante l'atto di preghiera, s’aprivano le ante che ricoprivano la fossa, irta di ferri taglienti.

Se invece il buco era poco profondo, alle lame si preferivano i ferri acuminati. A Gradara, Paolo e Francesca, avranno percorso sicuramente il cunicolo che immetteva nella sala del Tribunale ed in quella delle torture, dove il fondo d'un pozzo a lame raccoglieva i brandelli di chi, per cagion sua, vi finiva dentro. La loro tragica storia, vera, come tante altre divenute “leggenda”, avviene nel settembre del 1289 a causa d' un casto bacio.  Guido da Polenta, dà in sposa Francesca la figlia, al soprannominato Giovanni lo Zoppo, ovvero Giovanni (Giangiotto) Malatesta. Guido venne ammonito dai suoi fedeli riguardo al matrimonio combinato con il capostipite dei Malatesta da Verucchio, ma a nulla servì l'avvertimento. Francesca dovette supinamente accettare l'inganno ordito per metterla alla prova; raggiro del quale ben presto Paolo il Bello, fratello di Gian(c)giotto, si pentì. L’imbroglio ordito dal Malatesta consisteva nel fatto che il fratello Paolo, bello e di buoni costumi, avrebbe sposato per finta Francesca, ma che nel letto di nozze Francesca avrebbe trovato il Giangiotto. E così avvenne. La mattina dopo le nozze, la giovane sposa impazzì di dolore per aver giaciuto con il vecchio Malatesta. Tuttavia Paolo s’innamorò veramente di Francesca, la quale però con un marito vecchio e storpio concepì una bimba di nome Concordia. Il casto bacio tra Paolo e Francesca fu spiato da Malatestino dell'Occhio (aveva un bulbo solo), che lo riferì a Giangiotto. Costui, per sorprendere la moglie, imbastì una falsa partenza e, nascostosi, da un pertugio, controllò la situazione. La fine d’entrambi fu tremenda, poiché vennero uccisi da un solo colpo di spada. In effetti, Francesca, al fine di salvare Paolo dalle ire del fratello, gli si parò davanti e la lama li penetrò entrambi.

Comunque, molti testi attribuiscono a Francesca un ruolo che non aveva nulla a che vedere con la verità: tant'è che l'argomento fu anche parodiato. Lei era stata vittima di un imbroglio.

Il fecondo librettista Felice Romani fu il primo a comporre la tragedia, nel 1823, e probabilmente è l'opera (musicata da Saverio Mercadante e messa in scena nel 1830 a Brescia) citata nel capitolo quarantacinquesimo de “Le mie prigioni” da Silvio Pellico.

Nel 1829 Paolo Pola e Pietro Generali si unirono per elaborare un'opera lirica; così pure fece Massimiliano Quilici, il quale ne produsse anche il libretto. Sette anni più tardi, Giuseppe Tamburini musicò il testo di Marsoner e Grandi. Achille Castagnoli nel 1841 ne trasse una tragedia lirica, tanto truce che neppure la “Giovanna d'Arco” di Giuseppe Verdi lo era allo stesso modo, secondo il Matteini. Giuseppe Mercarini invece (siamo nel 1871 ed Aida di Verdi trionfa al Khedivè del Cairo) mette in musica il testo di Matteo Benvenuti. Antonio Cagnoni compose la partitura su libretto di quell'Antonio Ghislanzoni che produsse l'Aida verdiana mentre Bologna, centodieci anni fa, poteva ascoltare una “Francesca da Rimini” di Arturo Colautti su musiche di Luigi Mancinelli.  Di tutti questi compositori, glorie di casa nostra, non rimane altro che qualche stampa impolverata, appesa nell’aula di Canto dei Conservatori! La “Francesca da Rimini” più famosa rimane quella di Riccardo Zandonai del 1913.

Il castello di Rivalta, sito nel piacentino con i suoi due fantasmi, conserva un'angusta scala a chiocciola che conduce all'imbocco del pozzo detto “della morte”. Qui le ante della botola, collocata nel torresino posto al di sopra del torrione che svetta sui tetti del castello, trattennero l'ultimo respiro di vita di molti forzati, dei quali in breve tempo si decideva la sorte.

Molti sono i siti nei quali vi sono “pozzi con le lame”: Zena di Carpaneto; nella Torre Farnese a pianta quadrata di Bettola, dove all'interno del cortile si trova il pozzo; nel castello Malaspina dal Verme di Bobbio; nella torre dei Malvicini Fontana a Vicobarone; ed a Dozza di Imola. Uno spazio di riguardo, va dedicato alla Palazzina Marfisa d'Este a Ferrara. Essa fu costruita, nel XVI secolo, dal figlio di Lucrezia Borgia, Francesco e, Marfisa era sua figlia. Ecco quanto ancora si narra di Marfisa. Ella, era una donna di grande bellezza e con essa fece molte vittime, le quali terminavano i loro giorni, assassinate dalle taglienti lame che spuntavano dal famoso “pozzo dei rasoi”; caso unico, “a giardino”. Gli storici però definiscono Marfisa un’amorosa madre, la quale abitò la palazzina sino alla morte, vivendo nel rispetto delle “regole” dettate dal padre. Ebbe due matrimoni, il primo con Alfonsino da Montecchio ed il secondo con Alderano Cybo di Massa Carrara. Taluni narrano che, a Ferrara, nelle notti molto nebbiose, sul Corso della Giovecca s'aggiri il suo fantasma su d' una carrozza, trainata da cavalli, dalla quale penzolano i corpi dei condannati. L'Ariosto la menziona, nel suo poema, poiché Marfisa, visse con la sorella Bradamante in quella palazzina, sino alla morte, avvenuta nel 1608. In effetti Marfisa, non seguì la corte estense, nel momento della devoluzione, nei territori di Modena e Reggio, nel 1597 ma, rimase a Ferrara. Gaspare Levalori, a quel tempo canonico e teologo della Cattedrale (s'intendeva anche di lingua greca ed ebraica ma non tralasciava la lingua latina), le rese onore, componendo delle orazioni che egli stesso recitò per il suo funerale. Con questa citazione, riportata dallo storico Luigi Ughi nel “Dizionario storico degli Uomini illustri ferraresi”, scompare quell'alone che ne ha adombrato per secoli l'immagine di donna colta, amante del teatro ed educatrice di ben sette figli. Oggi riposa, vicino al primo Duca di Ferrara, Borso d'Este, nella Certosa monumentale.